I peccati di San Valentino
14 febbraio abusato, forzato, atteso, celebrato … Per i disamorati (e non) di questa giornata, un mio racconto inedito.
I peccati di San Valentino.
Pioveva quel pomeriggio, una pioggia penetrante, quel tanto che bastava a rendere più scivoloso il manto stradale. Tino, diminutivo di Valentino, non poteva permettersi di cadere dalla bicicletta e, se avveniva, doveva tacere. Trentasei anni compiuti a maggio, Tino era un ‘rider’, una di quelle identità nascoste dietro uno zaino colorato, un berretto, una giacca antivento e una pettorina con il nome “Food4you”, la piattaforma di consegne a domicilio per cui lavorava a cottimo: 4 euro a consegna. Appoggiato al muretto di Piazza Tuscolo, si ‘loggò’ con le proprie credenziali e si aggiustò il caschetto da ciclista con il marchio del padrone. Attese il primo cliente. Quel 14 febbraio forse avrebbe lavorato bene, perché tutti, anche i più acidi, qualcosa da San Valentino, da questo Babbonatale dei cuori, se lo aspettano sempre. Il display azzurro non tardò a illuminarsi: dalla pasticceria Gegna fino a via Taranto era un tratto breve. Tino rispose entro i due minuti di rito – passati i quali la consegna andava a un altro – e partì pedalando. Imboccata via Magna Grecia, al passaggio di un suv Cherokee, venne investito da un’ondata di acqua e di fango. “Ahò, a’ pezzente, ma ‘ndo guardi?” gridò un uomo dalla faccia tarchiata e dalle orecchie appuntite, abbassando il finestrino. “Io ero già in corsia! E poi sto lavorando” rispose Tino scrollandosi l’acqua dallo zaino. “E che m’oo chiami lavoro? Anvedi, c’hai pure er coraggio de risponne, a’ morto de fame”. “Guarda, ringrazia Dio che c’ho fretta, o …” “O?” gli si piazzò davanti il suv, da cui scese, con un salto, il tizio rosso in viso, la rappresentazione dell’Ira. Tino non rispose, deviò e riprese la sua strada. Dopo pochi minuti suonò all’interno 1 di una palazzina di via Taranto. Aprì la portiera dello stabile, le cosce suine strette nei leggins fucsia e la maglietta nera traforata: “E’ arrivato!” disse a qualcuno all’interno della casa. Si fece avanti un uomo incolore: “Quant’è?” “Tredici per la pasticceria”. L’uomo pagò con monete da 1 euro, poi lo guardò: “Okkei. Te devo dà altro?” “No…” titubò il ragazzo, sperando in una mancia: tutti lo facevano. “Tiè” e l’Avarizia in persona gli calò nella mano cinque monetine da un centesimo. Si riaccese il led azzurro: dalla pasticceria “Il sogno”, fino a via Latina. Questa volta era una scatola di cuori di cioccolato con una farfalla rossa dalle molte ali. “E’ qui Mario Nardi?” chiese Tino assicurando la bicicletta a un albero, davanti a un villino. Si accese una luce e una tendina gialla venne scostata dal vetro: “Arrivo”. Il cancello automatico si aprì con uno scatto e apparve un uomo dallo sguardo sconcertato. Il tale, con pochi capelli sulla testa, si guardò intorno e prese il pacchetto: “Grazie” biascicò pagando. Incuriosito, Tino si allungò per vedere chi fosse la donna in pigiama, senza trucco, seduta sul divano, impegnata con il telecomando a cambiare i canali in tv. “Sa, spero di scuoterla con i cioccolatini. Mia moglie è indifferente come l’Accidia”. Il cancello si richiuse dietro le spalle di Tino, che scoprì accanto alla sua bicicletta un cane, un Jack Russell con la zampa sollevata e il getto di pipì mirato sulla ruota. “Ma porc …!” esclamò cacciando il cane con un piede e rimettendosi in sella. “Dudù, piccolo della mamma, vieni qui” chiamò lamentosa una donna dal viso livido, truccata con tende di ombretto azzurro sugli occhi, le palpebre tirate da un improbabile lifting. “Dudùuu? Hai sentito? Lascialo stare quel poveraccio, odioso, insensibile … Vieni, vieni qui dalla mammina”. “Non sono un poveraccio e il suo cane dovrebbe imparare l’educazione” puntualizzò Tino mentre si accendeva di nuovo il led azzurro: questa volta da un ristorante cinese fino a via La Spezia, uno studio legale. “Chi non ama i cani non ama nessuno” replicò la donna. ‘Un mostro color ramarro’ … Considerò Tino guardando quella pelle raggrinzita. Lei insistette: “Io non sono come queste sceme sposate a cui lei porta cioccolatini. Gli animali sono più buoni degli uomini e poi, io non vorrei essere mai una di quelle donne, tradite tutto l’anno, di cui i mariti si ricordano solo il giorno di San Valentino perché devono stare nei ranghi” e le guance si fecero ancora più verdi. Come l’Invidia, pensò Tino ridendo e scampanellando per farsi strada. Al ristorante “La Giara” Tino caricò lo zaino e il proprietario cinese gli infilò in tasca 5 euro sorridendo (“pel San Valentino e la sua lagazza stasela”) e lo salutò. Allo studio lo aspettavano con impazienza: “Avvocato, è arrivato da mangiare!” esclamò una segretaria rivolta a un giovanotto dai capelli corvini, ‘lisciati con del lucido da scarpe’ pensò Tino, mentre chiedeva dove poggiare il contenuto dello zaino. “Si sposti lì in fondo per favore, qui riempie di odore l’ufficio” disse con astio ‘il lisciato’, indicando il bagno. “E vada via con quello zaino puzzolente” concluse, facendo cenno alla ragazza di dargli due euro di mancia. Tino era abituato a tutto, ormai, anche alla Superbia. Attese sotto la tettoia di un negozio di scarpe che il led si accendesse di nuovo, pensando alla sua vita, alla sua specializzazione in chimica, ai contratti mensili con l’università privata, a sua mamma, che non sapeva niente di quel lavoro su due ruote in una città cattiva, così come cattive, quel giorno, gli sembravano le persone. O forse era una sua impressione. Squillò il telefonino: era Raffaella. “Amore mio, sto lavorando” rispose lui. “Quando stacchi ci vediamo?” “Spero di sì. Tu a che ora finisci?” “Alle sette”. Tino si illuminò di gioia: “A più tardi, stellina” e richiuse il vecchio Nokia. Eccolo, di nuovo l’azzurro: dalla pasticceria “Gusto” fino a via Cilicia. “Ciao, Tino! Entra un minuto, caffè o cappuccio?” disse il pasticcere mentre la commessa riempiva lo zaino di bignè, di cannoli siciliani, di cioccolatini e persino di una torta alle mandorle. “Cappuccino molto caldo, grazie, Giorgio” rispose lui, sfilandosi i guanti da ciclista. No, non erano tutti cattivi, era solo una sua impressione. Sorseggiando il cappuccino guardò lo zaino stracolmo: “E’ per un esercito stavolta?” scherzò, togliendosi con il dorso della mano la schiuma di latte dalla bocca. E ripartì, ringraziando il pasticcere. Arrivò a fatica a via Cilicia 36 e citofonò: “Secondo piano” gracchiò una voce maschile. Arrivato a destinazione, Tino si accorse che non c’era la festa che lui si era immaginato, l’appartamento era vuoto e silenzioso, con la tv sintonizzata su un documentario di storia. “Grazie” disse l’uomo che aveva aperto alla porta, diventando rosso per la timidezza, gli occhi scuri e lucidi sul viso grasso, dal doppio mento. Gli lasciò 4 euro di mancia: “Festeggi, se può”. E la Gola richiuse malinconicamente la porta. Tino controllò l’orologio, erano già le sei e mezza, tra poco avrebbe abbracciato la sua Raffaella. Con le mance e qualche soldino in più si sarebbero offerti una pizza o più semplicemente una piccola torta, di quelle con il cuore disegnato con un filo di cioccolata. Il led si accese e poi si accese di nuovo, sembrò quasi lampeggiare: era la volta di “Sushi Oshima” e poi largo Brindisi. Tino lasciò che la ragazza eseguisse il rituale del riempimento dello zaino, dopo averlo pulito con una pezzetta: “Un cliente speciale” aggiunse aiutando Tino a chiudere la zip. Era quasi finita, un cliente speciale non lo avrebbe danneggiato… Suonò a lungo all’interno 6 dello stabile di largo Brindisi, ma il cliente, più che speciale, sembrava essere sordo. Finalmente socchiusero la porta: una ragazzina, sedici o diciassette anni, non di più, dai capelli biondi e lisci, gli occhi truccati, un profumo di zagare sulla pelle, si risolse ad aprire. “Buono, che cos’è?” chiese incautamente Tino annusandola. “E’ Chanel, pezzente” lo raggiunse una voce conosciuta. L’uomo del suv, in vestaglia di raso sintetico, si fece avanti ubriaco, una bottiglia di Veive Cliquot tra le mani: “Tiè, t’oo faccio assaggià. Irina!” tuonò rivolto a una ragazza dai capelli scuri e gli occhi azzurri. “Vaje a pijà ‘n bicchiere, je famo assaggià na cosa bbona” e rise stringendo a sé, tirandole per la vita, entrambe le ragazze. Irina, fedele al padrone, vestita solo di una camicia da uomo a righe blu, versò lo champagne in un bicchiere di plastica e lo offrì al ragazzo, rimasto senza parole. “T’oo faccio beve, ma solo se prima me chiedi scusa” gorgogliò l’uomo. Non meritava di incarnarsi, la Lussuria, amante dei piaceri raffinati – un peccato a metà strada tra la passione e il vizio – in un tipo così volgare… Tino svuotò con precisione lo zaino, poggiò tutto in terra, riprese la sacca e sul ciglio dell’appartamento, con calma, scandì: “Ma va’ a quel paese!”. E richiuse dietro di sé la porta. Sceso in strada, tirò un sospiro di sollievo e fece il log-off: nessuna luce azzurra, ormai, se non quella del desiderio per Raffaella. Non si trovava molto lontano. Raggiunse il caseggiato di via Appia Nuova, respirò l’odore agrodolce del bucato lasciato steso e l’aroma caldo che proveniva da una cucina ai primi piani, intuì la presenza di centinaia di persone chiuse nelle loro case. Entrò nel cortile con la bicicletta e si guardò intorno: forse era troppo presto? Un trillo lo fece sobbalzare: “Eccomi” disse Raffaella accostandosi a bordo della propria bicicletta. Si sorrisero. Tino, pedalando, tracciò sulla ghiaia la metà sinistra di un cuore; lei, ridendo, pedalò a sua volta, disegnando l’altra metà e fermandosi davanti a lui. Ruota contro ruota, si fissarono negli occhi e chiusero in un bacio il loro disegno.